L’età oscura la scarsa presenza ebraica a Milano nei primi diciotto secoli   

Milano è una città senza un vecchio ghetto, dove gli ebrei vivevano richiusi fra le mura, o un’antica sinagoga seminascosta nei piani alti di quella che un tempo era una casa di una influente famiglia. Un unicum nel panorama dell’ebraismo italiano costellato da decine di città che mantengono importanti vestigia dell’antica presenza ebraica.

A Milano non esiste nulla di tutto questo per il semplice motivo che almeno fino all’arrivo delle truppe napoleoniche, all’inizio del 1800, la città non ha mai avuto una vera e propria Comunità ebraica. Un antisemitismo a volte feroce e vincoli di ogni genere hanno, di fatto, tenuto per oltre quindici secoli gli ebrei lontani dalla città. Eppure, Mediolanum, da sempre centro commerciale e finanziario tra i più importanti dell’Italia settentrionale, non poteva non attrarre gli ebrei alla continua ricerca di luoghi “sicuri” dove vivere secondo le loro tradizioni ed esercitare le professioni nelle quali primeggiavano grazie alla loro educazione: il commercio, la finanza e la medicina. Quella che fu dapprima capitale dell’Impero Romano d’Occidente, poi libero comune e infine ducato fra i più influenti, sarebbe certamente stato un domicilio molto ambito per i numerosi ebrei che vivevano in decine di piccoli borghi o in importanti città della pianura padana, quali Mantova, Vercelli, Novara, Casale Monferrato, Brescia, Ostiano, Bozzolo, Busseto, Cortemaggiore, Fiorenzuola d’Adda.

A tenere lontani gli ebrei ci pensò prima Sant’Ambrogio, poi Bernardino de Bustis, Ludovico il Moro e San Carlo. Con gli Sforza, qualche famiglia ebraica venne richiamata in città al fine di finanziare le attività economiche del Ducato. Tuttavia, la loro permanenza fu sempre esigua e limitata nel tempo. L’arrivo degli spagnoli nel ʾ500 comportò il definitivo e completo allontanamento degli ebrei da Milano, nella quale non misero più piede fino all’inizio del XIX secolo.

 

L’età della tolleranza e l’arrivo degli ebrei a Milano

La situazione cominciò a cambiare solo alla fine del ʾ700 con l’assolutismo illuminato degli Asburgo e soprattutto l’arrivo delle armate napoleoniche. Tuttavia, ci volle ancora qualche anno perché gli ebrei arrivino numerosi a Milano dal Piemonte, dal Veneto e dal Friuli, dai ducati dell’Italia centrale e soprattutto da Mantova e da numerosi altri centri della pianura padana, oltre che da piccoli borghi dell’Impero Austro-ungarico e dalla Germania. Milano diventava sempre più tollerante ed economicamente attraente rispetto ad altre contrade italiane ed europee, dove la restaurazione aveva di nuovo peggiorato le condizioni di vita degli ebrei e lo sviluppo economico appariva meno vibrante. Così, nel giro di pochi decenni, si formò una Comunità israelitica particolarmente istruita, ricca e tuttavia estremamente eterogenea da un punto di vista geografico e culturale. Oltre sessanta furono le località italiane e altrettante quelle estere da cui provennero i primi ebrei a Milano.

 

La nascita della Comunità ebraica di Milano

Ci vorranno più di cinquant’anni perché la Comunità israelitica milanese cominci a darsi una struttura autonoma chiaramente riconoscibile, una sinagoga funzionante o anche semplicemente un rabbino unitamente riconosciuto[1]. Mantova rimarrà per lungo tempo il punto di riferimento amministrativo e spirituale degli ebrei milanesi. Infatti, il primo Consorzio israelitico del capoluogo lombardo fu creato nel 1855. Tuttavia, solo nel 1866 gli ebrei milanesi guidati dal primo rabbino della città, Prospero Moisè Ariani, si staccarono definitivamente da Mantova, dandosi un’autonoma vita religiosa e amministrativa. Il Consorzio non assunse però le caratteristiche giuridiche di “università israelitica” ai sensi della legge Rattazzi, ma ribadì la sua natura di associazione volontaristica. Questa struttura, cui non aderì mai più del 10% della popolazione ebraica, non riuscì né ad aggregare i correligionari milanesi, né a sviluppare capillari servizi sociali. Spiegano questi ritardi la carenza di una tradizione consolidata, l’eterogeneità dei nuovi arrivati, gli atavici timori di manifestare il proprio credo, oltre alla crescente laicità di molti ebrei giunti a Milano.

 

Il Risorgimento e il mezzo secolo d’oro degli ebrei italiani  

Assolutamente straordinario fu, invece, il contributo degli ebrei milanesi al Risorgimento e allo sviluppo economico e culturale della città, specie se paragonato alla loro esigua numerosità. Un nome più di tutti può sintetizzare l’apporto ebraico in merito: Enrico Guastalla, repubblicano mazziniano, combattente garibaldino, fervente patriota, intelligente politico e banchiere, ma anche ebreo convinto.

Questo non significa che il processo d’integrazione/assimilazione sia stato rapido e facile. Gli ebrei milanesi per lungo tempo tennero comportamenti socioeconomici imperniati su forti legami di gruppo con i propri correligionari, spesso del paese di origine. Frequentemente, almeno all’inizio, continuarono ad esercitare i mestieri in precedenza svolti, con una grande prevalenza di lavori autonomi e in particolare nel campo del commercio e dell’intermediazione finanziaria. I matrimoni il più delle volte erano endogamici, sia da un punto di vista religioso sia censuale, anche se non geografico.

Oltre alla fondazione di banche private di carattere famigliare di dimensioni assolutamente riguardevoli, quale la Banca Zaccaria-Pisa e quella dei Figli Weill-Schott, non possiamo dimenticare il contributo ebraico alla fondazione e alla gestione della Banca Popolare di Milano, voluta e presieduta da Luigi Luzzati, e soprattutto della Banca Commerciale Italiana, in cui la stragrande maggioranza del capitale versato proveniva da banche in mano ad ebrei di origine tedesca, austriaca e svizzera, mentre tre dei primi quattro amministratori furono di origine ebraica. Bisogna, inoltre, ricordare l’attività editoriale dei fratelli Treves e di Virginia Tedeschi, che, nel giro di pochi anni, divennero tra i principali editori italiani, contribuendo alla scoperta e diffusione di scrittori come Giovanni Verga, Gabriele D’Annunzio, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Edmondo De Amicis ecc. 

L’alto livello di scolarizzazione e la natura sociale fortemente borghese dell’ebraismo milanese si accompagnarono al fatto che molti di essi mostrarono importanti tendenze progressiste e un massiccio impegno civile e filantropico. A questo proposito vanno almeno menzionati l’Asilo Mariuccia fondato da Nina Sullam e soprattutto La Società Umanitaria, fortemente voluta e finanziata da Prospero Moisè Loria e poi diretta da personaggi come Luigi Della Torre e Augusto Osimo, tutti ebrei progressisti.

Se gli ebrei milanesi, o sarebbe meglio dire, gli ebrei giunti a Milano, diedero un contributo importante alla società civile in campo economico, politico e culturale, più modesto fu il loro apporto all’ebraismo e allo sviluppo del suo pensiero filosofico-religioso. Milano non vide mai sorgere una scuola rabbinica, le associazioni culturali ebraiche il più delle volte vissero al traino di quelle delle altre città italiane e nessuna importante rivista ebraica fu fondata a Milano fino al secondo decennio del Novecento e quando nacquero ebbero un modesto spessore. Ben più attive, sotto quest’angolatura, furono le comunità ebraiche di Livorno, Padova, Trieste, Firenze e più tardi Roma. 

La costruzione della nuova elegante sinagoga di via Guastalla nel 1892, in sostituzione del piccolo Tempio in Via Stampa, assieme all’opera del nuovo rabbino, Alessandro Da Fano, furono certamente momenti di svolta importanti nella vita israelitica milanese. Da Fano in particolare, coniugando le domande di modernità con quelle della tradizione ebraica, riuscì a istaurare un proficuo dialogo con il mondo cattolico e in particolare col papa Pio XI, del quale riuscì a conquistarsi una solida stima.   La magnifica ala israelitica del Cimitero monumentale di Milano è una straordinaria testimonianza del contributo ebraico alla città ma anche del significativo allontanamento dall’ortodossia di molti suoi membri influenti, data la presenza di edicole, tombe monumentali e colombari, dove i simboli della cultura ebraica si mischiano con quelli della cultura cattolica e civile dell’epoca.

 

La nascita del sionismo

La vera presa di coscienza dell’ebraismo milanese, e in generale anche di quello italiano, avverrà solo nei primi decenni del ‘900, con la nascita del sionismo e soprattutto con il fascismo. A lungo i movimenti sionistici milanesi non ebbero un significativo seguito, dato il forte attaccamento degli ebrei ai valori risorgimentali e più in generale a uno Stato che aveva riconosciuto loro libertà e prosperità. Anche in questo campo, Milano risultò sempre al traino degli altri centri del sionismo italiano e soprattutto internazionale. Eccezione rilevante furono il sionismo revisionista e l’Associazione Donne Ebree Italiane (ADEI), che pur avendo una matrice internazionale trovarono nel capoluogo lombardo il loro avamposto italiano. Era la prima volta che un nutrito gruppo di signore della borghesia ebraica, già dedite ad attività filantropiche, si occupavano in maniera organizzata e sistematica di ebrei, ebraismo e sionismo in un clima politico non certo favorevole.

 

Gli Ebrei milanesi durante il fascismo

Fu tuttavia il fascismo a imporre all’ebraismo, non solo milanese, una svolta radicale. Eʾ indubbio che il radicato patriottismo, che contraddistingueva molti ebrei, assieme al loro ceto sociale di appartenenza, indusse molti di loro ad aderire con convinzione al fascismo della prima ora. Nel 1930 la così detta “legge Falco” sulle “Comunità israelitiche e sull’Unione delle Comunità”, fu accolta con diffuso entusiasmo dagli ebrei italiani. Questa, infatti, imponeva agli israeliti, che non si dissociavano esplicitamente, l’obbligo di diventare membri e di contribuire a finanziare la propria Comunità. Per la prima volta, fu assegnato, a questi organismi, specifici compiti oltre ad una precisa e definita struttura organizzativa, ancora oggi sostanzialmente in vigore. 

A Milano il “comandante” Federico Jarach, noto industriale, già membro del Consiglio Comunale e cofondatore della Confederazione nazionale fascista dell’industria italiana, assunse con piglio fin da subito la presidenza della nuova Comunità israelitica di Milano e la guidò con fermezza in circostanze che si fecero sempre più difficili. Divenne anche presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiana fra il ʾ37 e il ʾ39 in un momento di particolare lacerazione dell’ebraismo italiano, diviso tra fascisti e antifascisti, sionisti e antisionisti, laici e ortodossi. Emblematiche le storie e i salotti di due donne ebree e milanesi di adozione: Margherita Sarfatti, l’amante biografa di Mussolini, e Anna Kuliscioff, la compagna di Filippo Turati.

Fra il 1933 e il 1938, Milano diventò, ancora una volta, il rifugio, seppure precario, per centinaia di ebrei in fuga dalla Germania nazista e dall’Austria post Anschluss (annessione). In molti casi si trattava di gente ridotta alla miseria che trovò aiuto in organizzazioni come il Comasebit e successivamente la Delasem, ma anche in molte iniziative individuali tra le quali La Mensa dei Bambini.

Le leggi razziali lasciarono sgomenti gli ebrei, in una certa misura fascisti, ma li misero anche tutti d’accordo. A Milano, in poche settimane, grazie all’azione di Federico Jarach e Gustavo Castelbolognesi, il nuovo rabbino, vennero approntate la sezione speciale della scuola di Via Spiga e la scuola ebraica di Via Eupili. Quest’ultima, sotto la guida illuminata di Yoseph Colombo, volle subito diventare non una scuola per ragazzi ebrei espulsi dalla scuola pubblica, ma una vera scuola ebraica, dove accanto alle materie curriculari si apprendevano anche cultura e lingua ebraica: insomma, un luogo dove decine di professori, rimasti all’improvviso senza lavoro, e soprattutto centinaia di ragazzi impauriti riacquistavano, se non l’orgoglio di essere ebrei e la speranza nel futuro, almeno un po’ di serenità e la consapevolezza della loro storia.

Il Tempio di via Guastalla, semidistrutto dalle bombe, l’Albergo Regina in via Silvio Pellico, dove aveva sede il comando delle SS, il “braccio tedesco” del carcere di San Vittore e il Binario 21 della Stazione Centrale sono alcuni dei calvari dove gli ebrei che non riuscirono a fuggire all’estero o in Italia furono catturati, rinchiusi e deportati durante gli anni della repubblica di Salò e l’occupazione nazista. Dalla sola Stazione Centrale, tra il dicembre 1943 e il gennaio del 1945, partirono quindici treni merci carichi di oltre 1200 ebrei diretti ad Auschwitz-Birkenau, Bergen Belsen o ai campi italiani di raccolta di Fossoli e Bolzano.

Importate fu tuttavia anche il contributo ebraico al socialismo milanese e la Resistenza. Bisogna infatti ricordare le figure di Eugenio Colorni ed Eugenio Curiel, tragicamente uccisi poche settimane prima della liberazione, nonché di Leo Valiani/Weiczen, antifascista, partigiano membro del Comitato di Liberazione Alta Italia; e infine le jeep con la stella di Davide della Brigata Ebraica che giravano per il centro di una Milano semidistrutta, ma liberata.   

 

La rinascita della Comunità e le sfide del dopoguerra

La rinascita della Comunità ebraica di Milano iniziò nel maggio del 1945 in via Unione 5. Da quel palazzo passarono migliaia di rifugiati (Displaced Persons): per la maggior parte provenivano clandestinamente dai campi di concentramento e dai paesi dell’Europa centro-orientale. Lì, come ricorda Primo Levi, ritrovarono “un’atmosfera più familiare” e un’esistenza migliore. Sotto la direzione di Raffaele Cantoni fu costituito un piccolo ospedale, un tempio, una mensa e soprattutto un dormitorio. In quel luogo, che rimarrà nella memoria di molti, operarono ben tredici organizzazioni ebraiche fra cui l’Unrra, la Joint, ADEI-WIZO, la ORT, ecc.

La ricostruzione della Comunità è anche indissolubilmente legata alle figure di Carlo Schapira, Sally Mayer e del figlio Astorre. Il primo, uomo straordinario di origine rumena, poliglotta, aveva fatto fortuna con il Cotonificio Bustese. Il secondo, giunto a Milano da un piccolo borgo della Germania, riuscì nel giro di pochi anni a costruire un impero nella produzione della carta. Quale primo presidente della Comunità eletto nel dopoguerra, gestì con passione e generosità l’assistenza ai profughi, si adoperò alla ricostruzione del Tempio di Via Guastalla, alla rinascita della scuola di via Eupili, della casa di riposo di via Jomelli, e delle altre strutture amministrative e sociali della Comunità.  Alla sua morte prematura il figlio Astorre, acceso sionista, prese le redini dell’azienda di famiglia, svolgendo contemporaneamente il ruolo di Console onorario del neonato Stato d’Israele e continuando a fornire un importante contributo all’ebraismo milanese. Fu sua la visione di costruire una nuova “enorme” scuola ebraica a Milano, che rispondesse alle future necessità demografiche della popolazione ebraica milanese in una zona allora del tutto periferica, fra Via Lorenteggio e piazza delle Bande Nere. In quel quartiere oggi vivono alcune migliaia di famiglie ebraiche, sorgono svariate sinagoghe e operano alcuni negozi e ristoranti kasher. Insomma, una mini-Brooklyn meneghina.  

Tra la metà degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, gli ebrei milanesi erano riusciti con fatica a ridurre il forte grado di eterogeneità che li aveva caratterizzati sin dall’origine, anche perché accumunati da esperienze drammatiche quali il regime fascista, la seconda guerra mondiale, l’invasione nazista e la shoah. Dal punto di vista demografico poi la Comunità ebraica di Milano si presentava in rapida crescita, dopo che le persecuzioni raziali avevano quasi dimezzato il numero di ebrei residenti nel capoluogo lombardo: da 7/8000 persone prima della guerra a circa 4500 nel 1948. A spiegare questa crescita concorre il fatto che in quel periodo Milano era diventata una meta importante per molti ebrei italiani che erano fuggiti all’est Europa o sopravvissuti ai campi. Inoltre, in quegli anni di speranza e boom economico, la natalità infantile conobbe una forte crescita, come tutte le economie occidentali.

 

L’arrivo degli ebrei dal Medioriente

Tuttavia, il contributo maggiore alla crescita venne dagli ebrei in fuga dai paesi arabi, dopo la proclamazione d’indipendenza dello Stato d’Israele nel 1948. Inizialmente i più numerosi furono gli ebrei egiziani, che fuggivano dopo la crisi di Suez del 1956, seguiti da libanesi, siriani, marocchini e iracheni, mentre successivamente arrivarono numerosi ebrei dall’Iran e dalla Libia. Nel 1975 il numero degli scritti alla Comunità sfiorava le 9500 persone, raggiungendo così il massimo storico. Di questi, meno di un terzo era nato a Milano, un altro terzo proveniva da altre località italiane o da paesi europei e ben il 37% da paesi del nord Africa e del Medio Oriente. Ancora una volta, com’era successo per buona parte dell’ottocento e della prima metà del novecento, la Comunità Ebraica di Milano si trovava ad accogliere migliaia di persone ricche di tradizioni, valori ed energie, ma estremamente eterogenee e con evidenti problemi d’integrazione. In questo caso le diversità risultavano ancora maggiori che nel passato, giacché agli ebrei italiani e askenaziti si aggiungeva una forte componente di ebrei sefarditi culturalmente più distanti. Così si moltiplicavano sinagoghe, scuole e centri culturali, che da un lato arricchivano l’offerta di servizi, dall’altra rendevano più complessi i rapporti fra i diversi gruppi.   

 

Ancora una volta il punto di forza della Comunità ebraica erano la natura cosmopolita e l’alto livello d’istruzione dei suoi membri, caratteristiche che hanno accompagnato l’intera storia dell’ebraismo milanese. Negli anni più recenti tuttavia la presenza ebraica nella vita politica italiana appariva, con qualche rilevante eccezione soprattutto legata ai movimenti sessantottini, inferiore a quella osservata nei decenni precedenti. Questo sia perché la tragica esperienza del fascismo aveva affievolito la fede nello Stato, sia perché i nuovi arrivati erano più lontani da una cultura che contemplava un forte impegno civile. Le energie si concentravano, invece, su campi più inclini all’imprenditoria, alla finanza, alle libere professioni, ma anche alla cultura, al giornalismo e allo spettacolo.     

L’apertura internazionale della città, assieme al fatto che Milano possa essere considerata non solo la capitale del mondo del commercio e della finanza, ma anche dell’editoria e dello spettacolo ha agevolato queste carriere. Milano si è poi dimostrata una delle città più tolleranti o almeno uno dei luoghi in cui gli ebrei si sono sentiti relativamente più al sicuro, anche se non dobbiamo mai dimenticare che l’antisemitismo è una malattia cronica difficile da debellare.

 

L’anatomia dell’ebraismo milanese.

Dall’inizio degli anni ottanta gli iscritti alla Comunità ebraica di Milano cominciarono progressivamente a decrescere fino a ridursi a meno di 6000. La forte riduzione era in larga parte dovuta al calo della natalità ebraica, quale prodotto della bassa fecondità tipica della società italiana, e della non affigliazione all’ebraismo di una cospicua percentuale di matrimoni misti fra ebrei e non ebrei. La crisi economica degli ultimi anni spingeva poi numerosi ebrei milanesi a emigrare all’estero. Tipico era il caso degli ebrei di origine persiana o di molti giovani che hanno “deciso” di emigrare in Israele, nel nord dell’Europa o negli Stati Uniti: tutto ciò ha prodotto anche un forte invecchiamento della popolazione ebraica milanese.

Più in generale negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza dell’identità ebraica oltre alla voglia di partecipare alla vita della Comunità. In alcuni casi tale recupero della cultura ebraica è stato la fonte ispiratrice dei successi professionali, in altri solo un utile compendio. Spesso questa consapevolezza ha indotto molti a un effettivo impegno nelle strutture della Comunità. La coscienza dell’importanza al dialogo con il mondo cattolico e non, portato avanti da rabbini come Giuseppe Laras, ha rappresentato poi un tratto distintivo dell’ebraismo milanese.

Alla crescente domanda di cultura ebraica si è anche accompagnata un’offerta quanto mai ricca e articolata: dal crescente rigore del rabbinato ufficiale, al fervente attivismo dei Lubavitch, per non parlare dell’orgogliosa ortodossia persiana, siriana-libanese o dell’impegno degli ebrei riformati reform.  Così ancor oggi la Milano ebraica si presenta spesso divisa ma ancora ricca di suggestioni culturali, che neppure la crisi e il calo demografico hanno sinora saputo far tacere.

[1] Il nome Sinagoga deriva dal termine greco Sumagoghè, assemblea, che a sua volta è la traduzione del termine ebraico di beth ha- kenesser, “casa di riunione”.